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Lezione immaginaria di una docente sospesa, “Che cosa significa pensare?”

L’inquisitore che cerca di convincere il Papa della necessità di processare Galileo:”

-“il mondo è percorso da un’inquietudine nefanda. È l’inquietudine dei loro cervelli, loro le trasferiscono alla terra immobile.” ““Le cifre parlano chiaro”: questo il loro grido di battaglia. Ma donde provengono le cifre? Lo sanno tutti: dal dubbio. Questi uomini mettono in dubbio ogni cosa. Ma possiamo fondare la compagine umana sul dubbio anziché sulla fede?”- ( Brecht)

Da docente sospesa di Filosofia e Storia di un Liceo statale nella provincia di Lecce, sinceramente in questo momento non so se potrò mai ritornare ad insegnare, ma, nell'eventualità che ciò dovesse accadere, mi chiedo comunque cosa potrei ancora insegnare ai miei studenti dopo l'ignobile trattamento che i nuovi sapienti hanno fatto subire al pensiero critico.

Voglio ancora vestire i panni di Don Chisciotte e continuare a lottare per un pensiero libero e critico che non teme l'arroganza e la violenza della maggioranza?

Posso ancora sperare che prima o poi un'alba sorgerà anche per quelli come me che non vogliono vincere, ma semplicemente ritornare a dialogare confrontandosi, anche aspramente, ma sempre nel pieno rispetto della persona e delle idee?

"...non sono d'accordo con quello che dici, ma mi batterò fino alla morte affinché tu lo possa dire..."

Oppure dovrei essere semplicemente più furba e, invece di oppormi a questa corrente di pensiero unico, che diventa sempre più forte e più violenta, scegliere di seguirla abbandonandomi al suo abbraccio, che sarà sicuramente asfissiante e malsano per chi, come me, crede ancora in un pensiero critico, puro e soprattutto mai unico, ma che, comunque, mi permetterà di accedere a tutti quei piccoli privilegi che solo l'abbraccio di una massa amorfa e godereccia e abituata a navigare da sempre in acque tranquille, sicure e alla mercé del suo "piccolo comandante di turno" può offrire.

Sicuramente onde evitare eventuali problemi, mi converrebbe affermare che Socrate era un uomo molto ligio alla legge (Cacciari -come Socrate bisogna rispettare le leggi-), o che Giordano Bruno e Galileo Galilei hanno sbagliato l’uno a non abiurare alla sua visione dell’universo e di Dio, finendo per questo sul rogo, e l’altro, dopo aver abiurato sotto minaccia al processo davanti al tribunale dell’Inquisizione nel 1633 (si narra comunque che, uscendo, abbia pronunciato tra sé e sé -Eppur si muove-), a perseverare ,negli ultimi anni della sua vita in segreto e confinato nell'solata villa di Arcetri, nei suoi studi sul metodo scientifico ( risale a tale periodo il trattato scientifico con il quale lo si considera il padre della scienza moderna) contrario a quel sapere fondato sul principio di autorità Aristotelico e di tradizione, o ancora che Kant nel suo scritto “Che cos’è l’Illuminismo” affermava che l’Illuminismo è non “uscire dallo stato di minorità mentale”, ma rimanere nello “stato di minorità mentale”, e che dovremmo farci guidare senza pensare da coloro che governano, che dovremmo seguire come bambini incapaci di prendersi cura della salute del proprio corpo quello che il medico raccomanda, o ancora che dovremmo ascoltare senza interrogare la nostra ragione quello che un confessore indica come cura e salvezza dell’anima?

Credo che sarebbe altrettanto conveniente eliminare dalla mia prassi educativa qualsiasi insegnamento finalizzato al SelbstDenken, il pensare da sé kantiano, all’autonomia del pensiero, come forma più pura di libero pensiero, poiché la dimensione critica solleverebbe non pochi dubbi e dissenso, formerebbe futuri eversori dell’ordine, cittadini poco propensi al rispetto passivo di norme e leggi, e dunque genererebbe dei fuori legge, dei potenziali criminali. Questa peculiarissima attività della mente, ritenuta in tutta la Storia del pensiero filosofico la più alta forma di espressione e di realizzazione dell’uomo, potrei sostituirla con il nobile compito di un pensiero pseudo-critico che si manifesta nella camicia di forza del puro costrutto retorico e propagandistico e già ampiamente utilizzato nelle ricorrenti cerimonie ufficiali negli ambienti istituzionali come la Scuola, per amalgamare e cementificare in un pensiero Unico le menti dei discenti .

Oltretutto, nella nostra società ipertecnologizzata a che servirebbe insegnare a pensare? Sappiamo benissimo che è possibile delegare tale faticosa attività all’intelligenza artificiale che ha standard quantitativamente più alti rispetto ai quali noi uomini risultiamo impotenti e limitati. Ci stiamo muovendo verso un mondo meccanizzato, e dunque l’unico pensiero che potrei insegnare è quello processuale, quello legato agli algoritmi, quello neutrale e asettico che non prende posizione, attività simile alle macchine che noi stessi abbiamo costruito sulla base di una sorta di imitazione delle nostre stesse attività mentali. Tendenzialmente l’uomo è destinato a divenire un’appendice delle macchine da lui stesse create. Il giorno in cui si dispiegherà il regno del globalismo-tecnico-totalitario,

“noi saremo solo pezzi di macchine o pezzi di materiale necessario per le macchine: saremo, quindi, uomini liquidati” (G. Anders, patologia della libertà)

in cui ci libereremo completamente del fardello stesso della scelta libera e consapevole, in quanto libere saranno le cose, mancante di libertà l’uomo.

Considerando che nel nostro tempo la contraddizione è divenuta regina spettrale dello spirito del mondo, la si trova incarnata nello Stato e nelle leggi (le continue pratiche governative di emanazione di decreti leggi e norme, sembrano scimmiottare il Dio Kronos che divora i suoi stessi figli), la troviamo pavoneggiarsi nella divulgazione del sapere scientifico, capitalizzato e istituzionalizzato e diffuso massivamente attraverso reti unificate nella narrazione di una “verità scientifica” che sembra essere divenuta la protagonista di un romanzo di formazione, dove la stessa è destinata a contraddirsi per manifestarsi e trasformarsi lungo il divenire storico in ciò che aveva prima negato.

Giunta a questo punto e per andare oltre in quest’opera di decostruzione del pensiero filosofico e di decostruzione del mio essere docente utile a discernere cosa è ancora possibile insegnare ,in questa sorta di società dalle sembianze totalitarie che mi si prospetta davanti, mi convinco sempre di più della necessità di compiere un parricidio, e mi trovo costretta a fare fuori il Padre Costituente del pensiero (non solo filosofico, ma anche scientifico), Parmenide, che a dir di Aristotele è l’inventore del principio di identità e di non contraddizione, quel principio che non mi permette di affermare contemporaneamente che A è A e che A non è A. Nel corso della Storia si è smarrito più volte questo principio che è a fondamento del pensiero stesso, nel corso della Storia umana abbiamo più volte imboccato la via delle tenebre e del non essere, o forse più volte nella Storia dell’uomo si è valicato il confine o la linea tra normalità e follia direbbe Freud e, ci siamo addentrati nel luogo-non-luogo della schizofrenia, dove le cose possono essere tutto e il contrario di tutto contemporaneamente, essere: presenti e assenti, lontane e vicine, bianche e nere, vive o morte, belle e brutte, insomma la nostra futura società popolata da fantasmi che hanno il dono di essere tutto e niente, di essere ovunque e in nessun luogo .

In un mondo dove governa l’insensatezza e dove anche l’obbedienza e il rispetto per le norme potrebbe divenire qualcosa di illecito, in quanto tutto può risolversi nel suo contrario, sarebbe necessario immaginare una pedagogia atta ad orientare gli alunni verso la familiarizzazione dei luoghi del non senso, che li conduca in queste selve oscure, senza però illuderli nell’attesa di un Virgilio che possa giungere, e tendergli la mano per guidarli verso la salvezza, perché questo presupporrebbe ancora un senso, una razionalità troppo umana.

Ma vorrei ora immaginare di trovarmi in un’aula insieme ai miei studenti e per un’ultima volta intrattenermi con loro a discutere con passione di “che cosa significa pensare” e per farlo rievocherei la figura del collezionista e del pescatore di perle che rappresentano non solo la figura stessa del pensatore, ma la stessa immagine del pensiero e la sua portata rivoluzionaria, quello che socraticamente è il vento del pensiero.

E per farlo dovrei immergermi come un pescatore di perle in fondo, sotto la superficie della Storia del Pensiero, per riportare alla luce come “frammenti di pensiero” o come “eterni fenomeni originari”, quei gioielli, quelle pietre preziose, cambiati dal mare in qualcosa di ricco e strano.

- I venti di per sé sono invisibili, tuttavia ciò che essi fanno è manifesto e in un certo modo noi avvertiamo il loro avvicinarsi. Il pensiero rende incerto ciò che prima di riflettere sembrava al di là di ogni dubbio, il pensiero è ugualmente pericoloso per tutti i credi, quanto a sé, non ne partorisce di nuovi, il pensare coincide con un’esperienza di spaesamento che corrisponde alla ricerca di significato, poiché la manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza, ma l’attitudine a distinguere il bene dal male, ciò che giusto da ciò che è ingiusto, ed è ciò che arendtianamente può salvare il mondo ed impedire le catastrofi nei momenti cruciali della storia, in cui si arriva alla resa dei conti, il male in tal senso è solo una sfida al pensiero. -

La metafora del vento, serve a Socrate per descrivere la portata non teorica, ma pratica della vita della mente, e per sollevare la tempesta del pensiero lui ricorre ad altre due metafore, quella del tafano e della torpedine, che pungolano e annebbiano e stordiscono colui che viene toccato dalle domande, che fanno nascere perplessità, dubbi e incertezze.

Con la pratica del dialogo maieutico, fondato sulla formulazione di domande più che sulla scoperta di risposte, distante dalla pretesa di avere qualcosa da insegnare, e convinto di avere a che fare con la sapienza solo nel senso del celebre “so di non sapere”, Socrate avrebbe diffuso la pratica dell’interrogazione filosofica tra i giovani dell’agorà. Così se Atene lo condannò a morte, non fu perché aveva insegnato nuove verità, ma perché aveva sollecitato i cittadini a partecipare attivamente alla vita della polis interrogando e criticando le verità esistenti. Pensando, imparavano a sollevare dubbi e interrogativi, essi si costituivano come esseri interroganti, capaci non solo di denaturalizzare presunte verità, ma anche di evitare la tirannia di verità nuove.

Dall’altro con l’idea socratica del “due in uno”, ovvero “due” (un io e un sé che dialogano tra loro) in quell’uno che appare agli occhi degli altri, egli avrebbe scoperto che noi possiamo avere rapporti con noi stessi, non meno che con gli altri, e che i due tipi di rapporto sono in un certo qual modo connessi. Non solo il mondo si dispiega come pluralità, ma il pensiero stesso è plurale, esso è dialettico e critico, poiché interrogando ciò che si presenta come univoco, esibisce la pluralità del mondo. La portata politica della scoperta di Socrate, non consiste nel ruolo della coscienza, come richiamo costante all’ascolto di un sé con cui restare coerente, ma nella possibilità di contraddirsi o non contraddirsi. Attualizzare la nostra potenziale alterità nell’essere coscienti è una preziosa risorsa in tempi di emergenza politica, a differenza della voce di Dio in noi o del lumen naturale, tale coscienza non dà indicazioni in positivo, per dirla con Shakespeare, pone all’uomo mille ostacoli.

Il pensiero possiede inevitabilmente un effetto distruttivo, tale da minare in profondità tutti i criteri fissati, i valori condivisi, le unità di misura del bene del male, insomma tutti i costumi e le regole di condotta. Questi pensieri congelati, sembra dire Socrate, sono così comodi che li si può usare anche dormendo, ma se il vento del pensiero che ora agiterò in te ti ha scosso dal tuo sonno, ti ha reso completamente sveglio e vivo, ti accorgerai di non avere in mano se non delle perplessità. Se il pensare risulta pericoloso per tutti i credi, non pensare, condizione in apparenza così raccomandabile per gli affari politici e morali, rappresenta per la polis quanto di più pericoloso possa essere immaginato: il costume di attenersi alle regole vigenti abitua gli uomini al possesso di regole, con il rischio che i cittadini più integrati e rispettosi nel sistema sociale siano i primi a sottomettersi a un nuovo dispotismo, perché dotato di un efficace e rassicurante sistema di regole.

Sappiamo bene quanto costò a Socrate aver sollevato nei suoi concittadini la tempesta del pensiero, gli valse la condanna a morte, per corruzione dei giovani e per empietà, somministrata da quello che in quell’epoca era definito un governo sedicente democratico. Condanna che farà riflettere Platone, suo discepolo, sul perché un uomo giusto sia stato condannato a morte da quello che poteva essere pensato come la forma migliore di governo, di qui anche la rivolta filosofica di Platone verso la Democrazia .

Ma ritorniamo a Socrate, perché dopo il discorso in sua difesa (L’Apologia di Socrate, Platone) decide di accettare la condanna a morte e rifiuta di fuggire in esilio, così come gli era stato proposto? Sarà perché solo accettando una condanna ingiusta poteva dimostrare la sua innocenza e mostrare l’ingiustizia subita e il vero volto del potere detenuto da coloro che dicevano di applicare giustamente la legge?

Sarà perché vuole mostrare che non le leggi in sé sono ingiuste, ma coloro che le usano in modo arbitrario per sottomettere chiunque provi a sollevare dubbi? Socrate non considerava ingiuste le Leggi della polis, ma unicamente il comportamento degli uomini. Immaginando di dialogare con le Leggi, Socrate fa dire loro: «Ora dunque tu te ne andrai all'Ade ingiustamente condannato non da noi Leggi, ma dagli uomini» (Critone, Platone)

Socrate ha rispettato la legge? Sì, ma è errato ritenere il suo assenso come semplice rispetto della legalità e che la legge vada rispettata sempre e comunque. Il rispetto della legge non è subordinato al nostro interesse particolare: essa va rispettata anche quando la si ritiene ingiusta, ma, nel contempo, è nostro dovere fare di tutto per modificarla col consenso degli altri: dicono infatti le Leggi a Socrate che egli è in difetto perché «non hai cercato di persuaderci se non facciamo bene qualcosa». (ibidem)

Inoltre, Socrate considera le Leggi delle entità vive, non impersonali, da rispettare perché da esse, in fondo, egli ha ricevuto la vita: «E poiché sei venuto al mondo, sei stato allevato ed educato, come puoi dire di non essere, prima di tutto, creatura nostra, in tutto obbligato a noi, tu e i tuoi avi? (ibidem) Le leggi in questione, di cui parla Socrate, potremmo oggi equiparale a quelle che fondano una città, una comunità, uno Stato? Se così fosse, le leggi di cui parla Socrate hanno a che vedere con quei principi fondanti l’agire umano, che permettono ad ogni cittadino di agire all’interno di un contesto normativo non mutevole e di leggi uguali per tutti che garantiscono e permettono di agire i diritti fondamentali dell’uomo, come la libertà, l’uguaglianza, la vita, quell’orizzonte o quadro normativo entro cui ogni agire umano e politico deve avvenire?

La figura atopica di Socrate che nella solitudine, si colloca all’estremo limite della polis, quasi uno straniero in essa, e non accetta mai passivamente le leggi e i costumi dominanti, ma li sottopone al vaglio della critica, appare in questo momento l’unica figura in grado di rappresentarmi, poiché come lui mi sento molto simile alla figura dello straniero e del paria, privata di quei diritti fondamentali, perché continua anche al prezzo della marginalità, a pensare.

Quando tutti si lasciano trasportare senza riflettere da ciò che tutti gli altri credono e fanno, coloro che pensano sono tratti fuori dal loro nascondiglio, perché il loro rifiuto di unirsi alla maggioranza è appariscente, e si converte per ciò stesso in una sorta di azione “ (H Arendt, La vita della mente)

Francy Myrto


Una docente sospesa che ha scelto di non cedere al ricatto dell’obbligo vaccinale con il velo di maya del consenso informato, di non cedere il proprio corpo e la propria anima che è essenzialmente libertà , quella che molti sono soliti chiamare dignità .






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